IL TRIBUNALE PER I MINORENNI Ha pronunciato e pubblicato mediante lettura della ordinanza nel procedimento penale n. 241/1997 r.g. nei confronti di 1) F.S.; 2) S.M.; 3) Q.S.; Imputati del delitto p. e p. dagli articoli 110 e 575 del c.p. perche', in concorso tra loro e con il maggiorenne Misceo Nicola, essendo il F esecutore materiale e il Q, lo S e il Misceo attivamente presenti sul luogo dell'agguato, cagionavano la morte di Del Bene Maurizio, esplodendogli contro, da brevissima distanza un colpo con un fucile da caccia modificato ("a canne mozze") e caricato "a pallettoni" che lo attingeva alla regione parasternale sinistra; In Torvajanica di Pomezia all'alba del 14 luglio 1996; Il F inoltre: b) del delitto p. e p. dagli articoli 61 n. 2, 81 c.p.v. del c.p. e 10, 12, 14, legge 14 ottobre 1974, n. 497 perche', con piu' azioni esecutive del medesimo disegno criminoso e al fine di eseguire il reato di omicidio al capo a), illegalmente deteneva e portava in luogo pubblico un fucile da caccia modificato ("a canne mozze") caricato a pallettoni (arma comune da sparo); In Torvajanica di Pomezia il 14 luglio 1996; Ordinanza sulla questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513 del c.p.p., nella formulazione risultante dalle modifiche operate con l'art. 1, legge 7 agosto 1997, n. 267, per violazione degli articoli 2, 3, 24, 25, 101 e 112 della Costituzione, sollevata dal pubblico ministero all'udienza del 22 ottobre 1997, ribadita dopo la replica dei difensori degli imputati all'udienza del 22 aprile 1998. O s s e r v a Premessa. Il 22 ottobre 1997 il tribunale, sentite le richieste delle parti, emetteva ordinanza di ammissione delle prove, tra le quali l'esame del coimputato maggiorenne Misceo Nicola, a carico del quale risulta pendente procedimento in fase dibattimentale davanti alla Corte d'assise di Roma; nel corso della stessa udienza si presentava per l'esame il coimputato maggiorenne, che in quella sede dichiarava di avvalersi della facolta' di non rispondere; veniva di conseguenza richiesta dal pubblico ministero l'acquisizione delle dichiarazioni dallo stesso in precedenza rese, in virtu' del disposto dell'art. 513, comma 2, del c.p.p. Poiche' nessuna delle parti private prestava consenso all'acquisizione dei verbali delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari del coimputato maggiorenne, il pubblico ministero chiedeva a questo tribunale di dichiarare non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale della nuova formulazione dell'art. 513 del c.p.p., con i provvedimenti di conseguenza. Le parti interloquivano nel merito dell'eccezione ed il pubblico ministero ribadiva la sollevata eccezione all'udienza del 22 aprile 1998. Sulla rilevanza Tenuto conto della indicazione delle fonti di prova contenuta nel decreto che dispone il giudizio, dei dati rappresentati dal pubblico ministero nel corso della relazione introduttiva nonche' delle richieste di prova dallo stesso formulate ai sensi dell'art. 493 del c.p.p. (e sostanzialmente accolte dal tribunale con l'ordinanza ex art. 495 del c.p.p.) appare evidente la rilevanza della dedotta questione di legittimita' costituzionale nei limiti in cui viene riferita alla nuova formulazione del comma 2, dell'art. 513, del c.p.p., trattandosi di processo nel quale l'impianto accusatorio poggia in larga parte sulle dichiarazioni di soggetti che si trovano nelle condizioni descritte dall'art. 210 del c.p.p. Tali dichiarazioni, in applicazione, della impugnata norma, non possono trovare ingresso nel dibattimento, stante l'esercizio, da parte del dichiarante, della facolta' di non rispondere, e l'assenza dell'accordo delle parti in ordine alla acquisizione dei verbali delle dichiarazioni rese dal medesimo nel corso delle indagini preliminari. Invero, come evidenziato dal pubblico ministero nell'esposizione introduttiva ex art. 493 del c.p.p., il predetto Misceo Nicola ha reso ampie ammissioni dell'addebito e ha chiamato in correita', delineando i rispettivi ruoli, i tre odierni imputati, e cio' ripetutamente e in varie fasi delle indagini preliminari collegate, sia in interrogatorio reso al p.m., sia in un confronto con il F davanti al p.m. ed al p.m.m., alla presenza dei rispettivi difensori. In base alla nuova formulazione dell'art. 513 del c.p.p. e' stato impossibile utilizzare ed inserire nel fascicolo del dibattimento le dichiarazioni precedentemente rese dal Misceo. Sulla non manifesta infondatezza Ritiene il collegio che la norma impugnata abbia sostanzialmente ripristinato quel vizio di manifesta irragionevolezza cui la stessa Corte costituzionale aveva posto rimedio con la sentenza n. 254 del 1992, attraverso la quale era stata dichiarata la illegittimita' costituzionale dell'art. 513, comma 2, del c.p.p. nella formulazione allora vigente "nella parte in cui non prevede che il giudice, sentite le parti, dispone la lettura dei verbali delle dichiarazioni ... rese dalle persone indicate nell'art. 210 del c.p.p., qualora queste si avvalgano della facolta' di non rispondere". In quella occasione, la Corte osservo' che il principio guida dell'oralita' deve essere contemperato con l'esigenza di evitare la perdita ai fini della decisione di quanto acquisito prima del dibattimento e che in tale sede sia irripetibile, rimarcando che in tale categoria gia' la legge delega ricomprendeva anche l'indisponibilita' dell'imputato all'esame. Inoltre, in materia di acquisizione e di utilizzabilita' della prova, la Corte, con una successiva sentenza (n. 255/1992) attribui' esplicitamente rilievo costituzionale al "principio di conservazione della prova", osservando che "... il sistema accusatorio positivamente instaurato ha prescelto la dialettica del contraddittorio dibattimentale quale criterio rispondente all'esigenza di ricerca della verita'; ma accanto al principio della oralita' e' presente, nel nuovo sistema processuale, il principio della non dispersione degli elementi di prova non compiutamente (o non genuinamente) acquisibili con il metodo orale...". Ancora piu' di recente, e tenendo presente il principio secondo il quale fine centrale del processo e' la ricerca della verita', la Corte con la sentenza n. 179 del 1994, relativamente alla ipotesi dell'esercizio della facolta' di astenersi dal deporre, riservata dall'art. 199 del c.p.p. ai prossimi congiunti dell'imputato, ha confermato il proprio orientamento. Muovendo da una fattispecie concreta in relazione alla quale il giudice a quo aveva sollevato la questione di costituzionalita' reputando non applicabile la disciplina prevista dall'art. 512 del c.p.p. nel caso di prossimo congiunto che, dopo avere reso dichiarazioni in sede di indagini preliminari, si avvalga della citata facolta' solo in sede dibattimentale, la Corte dichiarava la questione non fondata, ricorrendo ad una pronuncia c.d. "interpretativa di rigetto" che concludeva nel senso che "la testimonianza cosi' acquisita e' legittimamente, e soprattutto, stabilmente acquisita" ed "e' certamente fuor di dubbio che l'acquisizione della prova testimoniale legittimamente assunta non puo' essere condizionata dall'eventualita' di una successiva invalidazione da parte del teste, nel caso di un suo tardivo esercizio della facolta' di astensione: non esiste nell'ordinamento alcuna disposizione che autorizzi un'interpretazione del genere". Per il giudice delle leggi, dunque, in casi consimili, e sebbene in presenza dell'esercizio di un diritto, si determina una "oggettiva e non prevedibile" impossibilita' di ripetizione dell'atto dichiarativo. La conclusione cui la citata sentenza perviene (ossia la lettura, ex art. 512 del c.p.p., delle dichiarazioni in precedenza rese) si pone in linea con quello che deve essere senz'altro definito un caposaldo della elaborazione della giurisprudenza costituzionale dopo l'entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988, secondo il quale occorre "contemperare il rispetto del principio dell'oralita' con l'esigenza di evitare la perdita, ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede". D'altronde, con una interpetrazione diversa, il principio dell'oralita' diventerebbe un principio fine a se stesso, al quale verrebbe sacrificato lo scopo essenziale del processo penale, che - come e' opinione del collegio - consiste nella ricerca della verita' e nella pronuncia di una giusta decisione. Per un elementare principio di civilta' giuridica, affermato dalla Corte costituzionale, l'impossibilita' di consentire la dispersione della prova ha imposto al legislatore di prevedere e rendere possibile la lettura di atti formati nelle indagini preliminari, allorche' per qualsivoglia ragione (che puo' consistere anche nel puro arbitrio del soggetto) l'atto non sia ripetibile in dibattimento. E cosi', di fronte al testimone che opponga un irremovibile rifiuto di testimoniare, nell'alternativa tra il disperdere la prova e non fare giustizia e valorizzare invece gli atti formati anteriormente, il legislatore ha operato questa seconda scelta, consentendo la lettura e quindi l'utilizzazione delle dichiarazioni rese. Orbene, anche nel caso delle persone indicate nell'articolo 210 del c.p.p. si e' in presenza di soggetti che nella fase delle indagini preliminari non si sono avvalse della facolta' di non rispondere e che hanno esercitato tale diritto in dibattimento rendendo l'atto "oggettivamente e imprevedibilmente" irripetibile. Non risponde a logica che le dichiarazioni rese in fase di indagini preliminari possano essere utilizzate tout court qualora non sia possibile ottenere la presenza della persona in dibattimento o non sia possibile escuterlo a domicilio o con altra specifica modalita' (art. 513, comma 2, prima parte) e invece occorra l'accordo delle parti qualora la persona si presenti in udienza e rifiuti di rispondere (art. 513, comma 2, seconda parte). In entrambi i casi l'atto e' irripetibile oggettivamente e imprevedibilmente e tanto basta perche' in armonia ai princi'pi costituzionali fissati in materia dalla Corte (sent. 254/1992; 255/1992; 179/1994), il giudice se ne possa avvalere liberamente al fine di adempiere il precetto costituzionale racchiuso all'art. 101, comma 2 della Costituzione "i giudici sono soggetti soltanto alla legge" allo scopo di addivenire ad una sentenza giusta. La norma impugnata appare altresi' in contrasto con il disposto dell'art. 101, secondo comma, e 112 della Costituzione. Invero, la Consulta ha piu' volte avuto modo di precisare come il potere di decisione del giudice del merito della causa non possa essere vincolato dall'esercizio meramente discrezionale di un potere delle parti e dalle scelte di carattere processuale, in ipotesi anche immotivate, di costoro. E' evidente, infatti, come il precetto di cui all'art. 101, secondo comma, della Costituzione precluda una esasperata ed estremistica applicazione del principio dispositivo del processo penale, in ragione della indisponibilita' degli interessi pubblici e delle posizioni soggettive che di questo costituiscono l'oggetto; la disponibilita' della prova renderebbe disponibile, indirettamente, la stessa res iudicanda. Come chiaramente affermato nella nota sentenza (sempre appartenente al genus delle interpretative di rigetto: Corte costituzionale n. 111/1993) relativa alla definizione del potere istruttorio suppletivo riservato al giudice dibattimentale dall'art. 507 del c.p.p., nel nuovo codice di rito "il metodo dialogico di formazione della prova e' stato, invero, prescelto come metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente idoneo al loro per quanto piu' possibile pieno accertamento, e non come strumento per far programmaticamente prevalere una verita' formale risultante dal mero confronto dialettico tra le parti sulla verita' reale: altrimenti, ne sarebbe risultata tradita la funzione conoscitiva del processo, che discende dal principio di legalita' e da quel suo particolare aspetto costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale". Se e' vero che un potere dispositivo della prova nel processo e negato alle parti, a maggior ragione cio' deve valere per chi, come le persone di cui all'art. 210 del c.p.p., e' per definizione estraneo al processo nell'ambito del quale sia chiamato a rendere dichiarazioni. La norma impugnata, al contrario, consente di sottrarre una prova al vaglio dibattimentale, a seguito di un atto meramente discrezionale, compiuto da un soggetto che neppure riveste la qualita' di parte del procedimento, come avviene nel caso in cui la persona esaminata ex art. 210 del c.p.p. si avvalga della facolta' di non rispondere. A cio' il legislatore del 1997 ha ritenuto di dover aggiungere un ulteriore sbarramento all'ingresso della fonte di prova, riservando (nel caso in cui il dichiarante, in sede dibattimentale, si sia avvalso della facolta' di non rispondere) la possibilita' di acquisire le precedenti dichiarazioni all'accordo (rectius, al gradimento) delle parti. Nel caso di specie, risulta che, all'udienza del 20 ottobre 1997, Misceo Nicola - coimputato maggiorenne - senza alcun valido motivo si e' avvalso della facolta' di non rispondere. Tale scelta, alla stregua della norma della cui legittimita' in questa sede il collegio dubita, condiziona l'esercizio della giurisdizione, incidendo in misura determinante sulla liberta' del giudice, nel significato che tale concetto ha assunto nella giurisprudenza costituzionale. Il tribunale remittente si e', quindi, trovato di fronte ad una situazione in cui l'assunzione della prova e' stata inibita proprio dalla scelta arbitraria del Misceo. L'avere riservato alla insindacabile scelta del soggetto di rendere o meno dichiarazioni e alla volonta' delle parti processuali di consentire alla lettura di dichiarazioni in precedenza rese, ha finito per rimettere nella totale disponibilita' delle parti l'ingresso di una prova nel dibattimento e, in definitiva, a condizionare l'esercizio stesso dell'azione penale. Cio' e' quello che e' accaduto all'udienza del 20 ottobre 1997 quando tutti i difensori, preso atto del rifiuto del dichiarante di sottoporsi all'esame, non hanno consentito la lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni gia' rese. Si puo' dunque concludere, con le parole della stessa Corte costituzionale, che "ad un ordinamento costituzionale che sancisce il principio di obbligatorieta' dell'azione penale, ma e' prima di tutto improntato alla tutela dei diritti inviolabili dell'uomo ed al principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, non sono consone norme di metodologia processuale che ostacolino in modo irragionevole il processo di accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta decisione" (cfr. Corte costituzionale n. 241/1994; nello stesso senso, gia' Corte costituzionale n. 111/1993).